Domani farò l’ultima lezione dell’anno con la mia terza.
Mi metto qui sulla mia cattedra vuota e mi sento strano, c’è come una fitta qui in basso, proprio sotto lo stomaco, guardo questi banchi vuoti e mi sembra quasi di sentire le loro voci, le loro risate, tre anni di sforzi per insegnare loro a stare in piedi da soli, per cercare di tirare fuori da lì dentro la forza che ci vuole per andare nel mondo, e ora li vorrei qui, tutti qui, ma tipo che li boccerei tutti pur di stare ancora con loro.
Sì, lo ammetto, ci ho pensato seriamente.
Tre anni a spingerli verso il mondo e ora vorrei chiudere la porta, tenermeli vicino, parlarci un po’, sporcarmi le mani ancora di gesso e il cuore dei loro sguardi, delle loro ansie, delle incazzature, delle porte sbattute e delle lacrime trattenute.
Strano, mi sento. Triste e felice, vuoto e pieno.
Come un genitore che, insegnandoti a camminare, ti sta anche insegnando ad andartene via.
Perché loro ti dicono che torneranno a trovarti, che si andrà a mangiare la pizza insieme, non si preoccupi prof!, ma la verità è che non tornano, è quella la fregatura, che quando torneranno non saranno più loro, non sarà più lo stesso. Loro non lo sanno, ma io sì.
Ce ne saranno altri, certo, a settembre arriveranno e io nei loro occhi bambini già vedrò i ragazzi, e gli vorrò bene e faremo i verbi e poi Dante e poi le guerre e le rivoluzioni, ma non saranno mai gli stessi verbi: non sarà più le stesso Dante o le stesse guerre e rivoluzioni.
Le parole saranno forse simili, ma la musica sarà sempre diversa.
E allora domani entrerò qui e li guarderò, uno per uno. Non dirò niente, li guarderò e basta. E se mi guarderanno attentamente negli occhi, ci leggeranno le parole che ci scriverò sopra, le stesse parole che erano pronte lì dentro da tre anni esatti.
Grazie, piccoli farabutti. E adesso andate là fuori a far vedere chi siete!
Enrico Galiano
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